- Antonia S. Byatt, Paul Auster e Philip Roth sono tra le sue influenze principali: come hanno plasmato la sua visione della scrittura?
Sono scrittori di cui ammiro profondamente lo stile, la visione della vita e il tono con cui riescono a raccontare gli individui, la società e le relazioni.
Ho scoperto A. S. Byatt molto prima dell’uscita del film Possessione. Una storia romantica, del 2002 con Gwyneth Paltrow. Il libro era su un grande tavolo nella libreria Mondadori di Corso Vittorio Emanuele a Milano. Come spesso capitava allora, mi perdevo tra i libri, per ore, alla ricerca di qualcosa di più che un libro (i volumi! Questi li avrei comprati tutti se avessi potuto) di un’anima gemella, un mondo migliore di quello in cui vivevo, migliore perché assomigliava di più a quello cui io anelavo. Possessione apparve improvvisamente ai miei occhi, addirittura mi parve che fosse illuminato. Mai sentita questa autrice, eppure è un Einaudi, pensai, Tornai in giro per la libreria, dovevo fare bene i conti di quello che potevo permettermi, e gli Einaudi non erano tra i libri più economici. Ritornai apparentemente per caso vicino al tavolo, e, tra le decine di libri, vidi solo Possessione, che mi fissava. Lo presi, lessi la quarta, lo rimisi giù. Rifeci un giro tra i best seller; di nuovo mi ritrovai al tavolo, di nuovo davanti al mio sguardo c’era solo lui, Possessione. Lo presi gentilmente con una mano, e andai alla cassa. Inutile dire che ne fui folgorata. Da allora, dopo Possessione, passai non so quanto tempo a leggere tutto il possibile di Antonia Byatt, in inglese, e tutto il possibile su di lei. Byatt è il mio modello per la capacità di descrivere minuziosamente fiori, oggetti, come se dipingesse un quadro di Canaletto, Van Eyck. Lei stessa racconta che il romanzo che sta per nascere le si presenta come una macchia di colore.
Ad Auster sono arrivata girovagando nella rete. Il titolo di un suo libro poco noto, The Music of Chance, mi incuriosì. Sono sempre stata sensibile al tema del destino, della scelta. Il romanzo mi piacque molto, e nello stesso tempo mi deluse, mi appariva troppo contorto senza motivo. Aggiungo che leggo esclusivamente in inglese, non mi piacciono le traduzioni, trovo inutile leggere un libro inglese, o americano, in italiano. Volevo capire, così gli detti un’altra chance e trovai in lui un abile interlocutore. Parlava della inafferrabilità del destino, che invero si tratta solo di “caso”, riteneva che le cose accadessero senza un motivo, e il più delle volte siamo noi uomini ad appicciare sui fatti i nostri motivi. Esemplare a questo proposito è Leviathan. Introduceva quel senso di pessimismo che vorrebbe essere salvato che avevo già conosciuto nel romanzo russo.
Philip Roth mi conquistò con Il lamento di Portnoy (Portnoy’s Complain). Scoprii poi The Human Stain (La macchia umana) reso magnificamente nell’omonimo film con Anthony Hopkins e Nikole Kidman. Uno dei motivi che mi attirò verso Roth fu la sua “ebraicità”. Negli anni in cui facevo l’editor, avevo curato un bellissimo libro di Leon Wieseltier, Kaddish, che mi aveva spinto ad approfondire la cultura ebraica. In Roth, come in altri, questa non si perde ma si sfuma e si integra con quella americana, quella degli esuli volontari che però soffrono di nostalgia malcelata dal cinismo, quella dei sarcastici osservatori di una fede che li anima dal di dentro, ma probabilmente li ha fatti soffrire dal di fuori.
Vorrei che Roth fosse ancora tra noi per avere la sua visione di quello che sta accadendo nella terra dei suoi avi. Sono certa che la risposta sarebbe acuta e netta.
Ad Auster e a Roth, dunque, guardo sempre per la loro capacità di parlare dell’uomo in modo diretto, senza filtri, senza mai dire una parola definitiva, ma visto nel suo divenire, nella sua piccolezza, che tuttavia diventa grande nella parte di spazio e tempo in cui vivono.
- Nel romanzo Insondabile destino, Gwyny afferma che il destino è una creazione personale. Quanto questa visione riflette il suo pensiero personale?
Gran parte di questa risposta si trova già tra le righe di quello che ho appena raccontato. Questo leit motiv attraversa non solo la mia scrittura, ma risale più a fondo, nel tessuto stesso della mia world picture. La colpa di tutto è da attribuire al mio professore di greco, il professor Zambarbieri. Con lui e da lui ho appreso tutto ciò che so sulla tragedia greca, sui filosofi presocratici e Platone, sulla cultura dell’antichità. I messaggi (come definirli: subliminali? Catartici?) di questa ineguagliabile civiltà mi si sono stampigliati nel carattere, sottilmente, inavvertitamente. Non sempre si sono rivelati salvifici, talvolta hanno rischiato di distruggere o di segregarmi nel “mondo delle idee”. Una volta superato questo tremendo ostacolo, però, mi sono aggrappata forte a loro e ogni volta che cadevo, anzi cado, loro mi tendono la mano e mi rialzo. Tra tutte γνῶθι σεαυτόν [ghnozi seauton], conosci te stesso, mi ha tante volte indicato la strada. In questo oracolo c’è molto di più della mindfulness moderna, del pensiero buddista che ci invita a vivere il momento intensamente, è una vera e propria filosofia di vita che impedisce sempre di mentire a noi stessi. Anche quando magari lo vorremmo.
Quindi, per rispondere, sì, fortemente sì, nella inconoscibilità del piano della nostra vita, compresa nella sua totalità nella mente del “divino creatore”, siamo noi con le nostre scelte a determinare chi siamo e a costruire in nostro destino. Il destino non è Fato, immutabile e tiranno. Il problema che rimane, forse, è come integrare queste due visioni.
- Quali sono state le sfide principali che ha affrontato nel creare un equilibrio tra introspezione e trama avvincente nei suoi romanzi?
La sfida maggiore è stata trovare la mia voce. Nel corso degli anni è stata puerile, appena sussurrata, incerta, mascherata. Eppure, anche in questo caso sono stata fortunata. Ho potuto esercitarmi a tirarla fuori crescendo il mio bambino, o meglio con il mio bambino. Con i figli piccoli non si può mentire, se ne accorgono subito, e si ribellano. Lui invece mi rivelò questa mia responsabilità già a pochi anni: ogni cosa gli dicessi di fare, lui la faceva, istintivamente, mosso, credo, da una fiducia inesauribile. Da allora non ho mai mentito a me stessa, e finalmente la mia voce è uscita. Tardi? Chi può dirlo, io dico quando era tempo. L’introspezione è il sale della mia vita, il condimento la curiosità per la vita.
- In che modo l’esperienza della depressione ha influenzato il suo approccio alla scrittura e la profondità dei suoi personaggi?
La ringrazio della domanda. Ho il sentore che “depressione” sia diventata una parola tabù, oppure, al contrario, usurata e svuotata del suo vero significato. La depressione, tanto terribile e feroce, non è tristezza, non è essere giù di morale, non è non aver voglia di uscire, non è mancanza di iniziativa. La depressione, e in particolare, la depressione maggiore è una malattia molto grave, dalla quale non è scontato si possa uscire, e, per riuscirci, ci vuole molto … non so nemmeno io come chiamarlo, se non desiderio di salvarsi, di vivere.
Il buio che ho visto e vissuto, il terrore che non mi abbandonava mai, l’incapacità di gestire la mia vita, dai gesti più semplici – vestirsi, lavarsi – a quelli professionali – stare in classe -, il pensiero ossessivo che occupava ogni minuto, il senso di solitudine infinita e infine il bisogno vorace di affetto non potrò mai dimenticarli. Eppure, da questa lotta impari sono rinata come persona nuova, più ricca, più forte, più grata, più piena d’amore, più consapevole e più indipendente. Soprattutto, sono finalmente nata scrittrice.
Tutto ciò ritorna nei miei scritti al di là della mia volontà, fluisce dalla penna al foglio, naturalmente.
Da tempo vorrei creare un punto di ascolto per persone affette da questo cancro dell’anima. Esso dovrà rivolgersi ai famigliari, agli amici, ai parenti, mariti, mogli, amanti, perché il depresso (almeno per quello che ho esperito io) perde non solo l’interesse per ogni cosa, ma è del tutto incapace di muoversi. Inoltre, raccogliere informazioni per loro sarebbe impossibile, in quanto non sono in grado di comprendere testi di qualsiasi genere. Attraversano il mondo avvolti in una nuvola grigia, all’interno della quale ci sono solo loro stessi e la paura. Il dolore, e il terrore maggiore che ho vissuto in quegli anni era proprio non poter più comprendere. Mi sono costruita sullo studio e sui libri, che hanno sempre costituito il mio mondo privato. Non riuscire più a leggere né a preparare una lezione era come essere morta. Perciò all’uscita dall’oscuro e deserto buco nero la prima cosa che ho fatto è stato comprare un libro (The Children’s Book, di A. Byatt) e un quaderno.
Con la puntualità di un’impiegata, ho letto per sei, sette ore al giorno, e scritto note e commenti su quei racconti e romanzi, per un periodo piuttosto lungo, per essere sicura che ora ricordavo, ora capivo. Non so descrivere la gioia, l’attesa trepidante di rimettermi a leggere giorno dopo giorno.
Qualche anno fa ho fatto di questo viaggio un libro, dove ho raccolto le mie note sui libri letti: Un Libro per guarire. Quando leggere cura l’anima.
La cosiddetta booktherapy esiste da migliaia di anni, nella Biblioteca di Alessandria esisteva una sezione dedicata proprio ai libri che curano. Credo di averlo sempre saputo, nel profondo del cuore, che i libri sono fonte di vita.
- Come interpreta il rapporto tra lettore e personaggi nei suoi libri? Qual è il segreto per renderlo così intenso?
Èuna domanda complessa. Osservandomi dall’esterno, capisco ora che mentre scrivo sono sia lettore sia personaggio. Entro ed esco dai ruoli con la fluidità di uno spirito, e mi accorgo ora che non potrei fare diversamente. Per scrivere ho bisogno di capire, e, nello stesso tempo, di onestà personale, nel bene e nel male.
Non mi fermano i generi, o le nazionalità, abito in tutti, anche nei paesaggi, che visualizzo per poter descrivere. Spesso scrivo in inglese, perché quell’argomento, o racconto che sia ha bisogno di quel mezzo espressivo per nascere.
In questo modo si crea anche un’altra meraviglia che altrimenti non saprei spiegare: faccio lunghe e accurate ricerche per i miei libri, con tanto di schede e bibliografia. Questo “sapere” però si amalgama e si fonde nella narrazione, e mi dà agio, per esempio, di “imitare” periodi e personaggi di epoche diverse.
Attribuisco questo sentire alla teoria della negative capability del poeta romantico John Keats: essere capaci di abitare il dubbio e il mistero senza rincorrere sempre a fastidiosi “perché”, e scomparire dunque nella nostra stessa creazione perché essa si possa esprimere. Credo che c’entri anche Coleridge quando raccomanda di leggere, o scrivere dunque, con un po’ di suspension of disbelief, cioè rinunciando all’incredulità.
- “Scrivere sempre, leggere sempre” è il suo motto. Quali libri o autori considera imprescindibili per chi vuole intraprendere il mestiere di scrittore?
Sto mettendo a punto una serie di podcast, trasferibili poi su altri media, il cui argomento sono “under-cover books”, cioè i libri proibiti. Cosa sono questi libri segreti? La risposta stupirà, sono i “classici”, intesi con tutte le sfumature di significato e classificazione che ognuno di voi gli attribuisce. Amo e sono esperta dei classici, li ho analizzati a fondo, prima come insegnante, poi come scrittrice, e anche come donna alla ricerca di un’identità. Si tratta perlopiù di testi inglesi. Quindi il primo consiglio è: leggere i classici, partendo da Omero, via via più su con Chaucer, la Divina Commedia, Defoe, Sterne con il suo Tristam Shandy, precursore della narrativa d’avanguardia, Jane Austen, George Eliot, Thomas Hardy, Virginia Woolf, Emily Dickinson, Beckett, Shaw, T. S. Eliot, Goldwin, Silvia Plath, Alice Munro, la O’ Flannery, Carver, Thomas Mann, Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Musil, Pearl Buck, Proust, Gogol, Cechov, Flaubert, Victor Hugo, Balzac e tantissimi altri.
Non c’è bisogno di scegliere: pickup one and go! Prendine uno e vai! Sarà lui, il libro a indicare la strada da seguire. Certo, è vero: ci vuole molto tempo. Pertanto, iniziate il prima possibile: in fondo ognuno di noi è uno scrittore, se non di altro, della propria vita, tanto vale prepararsi.
Per quanto riguarda i libri specificatamente dedicati allo scrivere, dico subito che li accosto a quelli che insegnano a leggere. La critica letteraria, che oggi sta un po’ scomparendo, per me è stata fondamentale per capire, ma soprattutto per imparare a scrivere. Da slavista mi sono accostata per prima ai formalisti russi, tra cui Šklovskij, poi ho avvicinato Harold Bloom, Steven Greenblatt, Quindi Borges, Calvino, Nabokov, Contini (elencati senza alcun risetto della cronologia!), Toíbín, Samuel Johnson, e tutto quello che ho trovato.
Tuttavia, dopo questo guazzabuglio, indico tre libri per me imprescindibili: Anna Karenina, la cantica dantesca Inferno, La montagna incantata di Thomas Mann. Infine, non dovrebbe mancare la Bibbia, ma ho sforato.
- Come affronta il processo creativo: segue una struttura predefinita o lascia che la storia si sviluppi organicamente?
Non sono mai stata capace di fare “una scaletta”, mai. Mi sentivo un’asina. All’inizio, anche a scuola, scrivevo inseguendo la storia, senza interruzione, Poi ho scritto a puzzle, poiché un personaggio reclamava più protagonismo, una scena maggiori dettagli, un elemento richiamava un flashback. Messe giù tutte le tessere, le assemblavo e ricucivo e vuoti.
Poi ho capito che questa mia spontaneità non era un difetto, ma una peculiarità del mio processo creativo. Scrivere senza una scaletta predefinita mi permette di lasciarmi sorprendere dai personaggi, dalle loro scelte e dalle svolte impreviste della trama. È un approccio organico che dà vita alla narrazione in modo naturale, senza forzature. Tuttavia, nel tempo ho imparato a integrare una certa struttura a posteriori, durante la revisione. Rileggo il testo con uno sguardo critico, cercando di individuare punti deboli, incoerenze o passaggi da rafforzare. In questa fase, analizzo la trama, verifico che tutto sia bilanciato e che ogni elemento serva alla storia.
Mi piace pensare che il mio processo creativo sia simile a coltivare un giardino: inizio piantando i semi senza sapere esattamente come cresceranno, ma con il tempo li nutro e li modello, dando loro forma. La struttura, per me, arriva come una fase naturale di rifinitura, non come un punto di partenza.
Il consiglio preferito che seguo sempre è di Stephen King, dal suo On writing: tagliare, tagliare, tagliare ancora, soprattutto far sparire tutti gli avverbi, al massimo salvarne due, e ridurre molto la quantità di aggettivi.
- C’è un tema o una storia che sogna di affrontare ma che finora non ha ancora esplorato nei suoi romanzi?
Certamente, anche se non è proprio vero che non l’ho mai affrontato. In nuce c’è già quasi dappertutto: la donna, come autrice, protagonista, critica, artista, nella finzione o nella vita. A sostegno di questo pensiero è stato un libro di Margareth Drabble, sorella di A. Byatt, The Peppereth Moth, non so se e come è stato tradotto. In pratica una ricerca genealogica dell’origine per via femminile e quindi l’unica vera. Porto con me, infatti, i racconti di mia madre, classe 1931, su sua nonna, madre di tredici figli, che vedeva il futuro, che descriveva il treno, le guerre, e sapeva guarire le malattie con i suoi riti e le sue formule religiose. La vita stessa di mia mamma l’infanzia, la guerra, la Milano degli anni ’50. Le piaceva molto raccontare del tempo passato. Sono convinta che lei sia stata la mia prima adorata storyteller, che rimane sempre con me per guidarmi senza mostrarsi.
Quindi sì, vorrei continuare a scrivere di donne eccelse, immedesimandomi in loro per svelarle. Inoltre, il sogno più grande è una cronaca biografica al femminile delle mie origini, cui partecipa anche la mia adorata nonna Antonietta, di cui un giorno sicuramente vi parlerò.
- La sua scrittura potrebbe adattarsi a un formato diverso, come il cinema o la serie TV? Ha mai considerato questa possibilità?
Certo, anzi del mio primo racconto La casa nel nocciolo, per ragazzi, era stato detto che aveva uno stile cinematografico. Sarebbe un’emozione grandiosa vedere le mie parole prendere vita sullo schermo, io che sono un’accanita cinefila. Poi, mi viene sempre in mente cosa rispose A. Byatt ai giornalisti che le chiedevano se non si sentiva umiliata nell’aver venduto Possession a Hollywood. Anzitutto, disse, libro e film sono due mezzi diversi, dunque il mio Possession sarà sicuramente diverso dal film. E poi, soprattutto, se questo mi ha permesso di vivere più a lungo grazie alla piscina che mi sono costruita, non ci trovo alcun male.
Anch’io ho sempre sognato una piscina personale!
Infine, come si è capito non scriverei una sceneggiatura, ma rivedrei poi il manoscritto sotto questa luce con molto entusiasmo.
- Quale consiglio darebbe a chi sta cercando di trovare la propria voce narrativa, specialmente chi è influenzato da generi ibridi?
Il fenomeno della divisone in generi è tutto anglofono, in Italia non si è mai usato. Non ci vedo niente di particolare: la letteratura si evolve e cambia, perché è “vivente”. Ora, già Sterne aveva fatto un frappé dei generi letterari, per non parlare di Joyce, tra quelli che conosco io. Niente di nuovo dunque. Il primo consiglio è quello di non sentirsi “unici”, degli innovatori, perché anche loro rientrano nella tradizione. Quindi, leggere chi è venuto prima di loro e vedere cosa sanno aggiungere di nuovo a quello che già esiste. Anche Insondabile destino in fondo è ibrido: si rifà al romanzo Godwiniano (Godwin era il padre di Mary Shelley, autrice di Frankestein): il reale fantastico. Nel mondo reale appare il soprannaturale. Non cambiate perché la moda letteraria del momento chiede altro rispetto al vostro narrare. Avete piacere nello scrivere come fate? Allora approfondite, studiate e migliorate. Una volta acquisito appieno il vostro genere, cambiate e arricchitevi.
- Dove è possibile seguire il suo lavoro sul web e sui social?
Ho un sito web che si rinnova lentamente perché non posso fare tutto: https://www.anna-ferrari.com, il quale ospita anche un blog, e una sezione sull’insegnamento delle lingue straniere. Sono poi attiva sui principali social*: